Quando si insediò l’attuale Governo, il “principino di Firenze” aveva un’idea ben chiara sul futuro del “servizio pubblico televisivo”. “Via la politica dalla Rai”, era il suo spot. E chi se lo sarebbe immaginato che in Rai la politica sarebbe rimasta, ma ci sarebbe arrivata anche la Mafia. Negli ultimi giorni si sono susseguite diverse critiche nei confronti di Bruno Vespa e del suo storico salotto televisivo. Pare però più significativo provare a dare una valutazione che riguarda soprattutto un’etica del giornalismo che ancora esiste o per lo meno, ancora dovrebbe esistere. Vespa è uomo furbo e navigato. Sa bene che con Riina jr, lo share avrebbe ad ogni modo fatto la sua parte. Ma dal punto di vista giornalistico è giusto intervistare il figlio di un pluripregiudicato nemico dello stato, mandante degli omicidi più efferati della storia della Repubblica Italiana? Tutto questo fa giustizia alle centinai di vittime che abbiamo pianto negli scorsi decenni? In questo caso, forse, al di là di semplici e banali moralismi, la misura è stata colmata. Nel senso che quel Riina figlio non era negli studi Rai per raccontare i retroscena della sua famiglia, cosa che magari avrebbe potuto risultare rilevante dal punto di vista dell’informazione e giustificarne la sua presenza. Il figlio del boss mafioso sulle poltrone di Vespa si è accomodato fondamentalmente per promuovere il suo nuovo libro, vendere, guadagnare, fare cassa sulle scorribande passate del padre. E questo è francamente inaccettabile. Bruno Vespa pare non aver capito o, quanto meno, se ne avesse avuta coscienza, risulterebbe un colluso. Le organizzazioni mafiose sfilano in seconda serata e, dopo il caso dei Casamonica, gabbano ancora il “Vespa curioso” che ora rischia il posto, a ragion veduta. Perderà la guerra forse, ma intanto ha vinto la sua battaglia, visto che da due settimane non si parla altro che di “Porta a Porta”. Ma conclusa l’intervista, nulla è emerso di rilevante a livello giornalistico. Solo indignazione. Per raccontare la mafia, in Italia, abbiamo tanti esempi virtuosi di reporter, scrittori e semplici cittadini che la mafia l’hanno subita sulla loro pelle eppure non hanno lo stesso red carpet da Bruno Vespa. Ma per fortuna, il giornalismo globale (specificatamente quello d’inchiesta), va verso la direzione giusta. L’ultima inchiesta Panama Papers ha scoperto i conti correnti di ben 800 persone, intestati a fittizie società off-shore sulle stretto del centro America. Tra questi figurerebbero anche 100 italiani, tra imprenditori, personaggi dello spettacolo, dello sport e della criminalità organizzata che però fanno affidamento al fatto che la pratica evasiva sia stata posta in essere in maniera del tutto legale. Non figurano politici (per ora), dato davvero singolare per uno scandalo di così ampia portata. Ma tutta la vicenda, che ogni giorno si arricchisce di ulteriori nomi e particolari, ha dimostrato che il giornalismo, nell’era dei social e dell’auto reporting, può essere ancora il cane da guardia del potere e di una giustizia sociale non sempre garantita dagli organi giudiziari (soprattutto in Italia). Poi c’è anche altro, c’è chi non ha ben fisso l’obiettivo e, sperando in benefici utilitaristici poco meritori, va di fiore in fiore, come l’ape Maia, anzi come Vespa.

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