E’ il simbolo di una città ma anche lo specchio del paese. Il paese che si affida sempre ai “vecchi” nel momento del bisogno, nel momento in cui il ricambio generazionale non è all’altezza delle glorie passate. Si chiama Francesco Totti e di mestiere fa il numero 10 da una vita. Lo fa nella città dove è nato e dove con gli anni e divenuto un simbolo indiscusso e indiscutibile. Un mondiale vinto nel 2006, uno scudetto con la maglia della Roma, pochi altri successi con il club che non ha mai lasciato e nessun rimpianto, neanche ripensando alle proposte del Real Madrid, qualche anno fa. E’ vicino al traguardo dei quaranta e come quasi tutte le bandiere del calcio, si è trovato anche lui a dover “calmierare” le sue presenze in campo. “Va gestito, va trattato come tutti gli altri calciatori” – ripete il nuovo allenatore della Roma, Luciano Spalletti, al quale è stato affidato il compito di portare dignitosamente a termine una stagione partita con ben altre ambizioni e destinata a concludersi con un altro piazzamento. Francesco Totti che insieme al Colosseo, ad Alberto Sordi e alla carbonara è divenuto un simbolo, un elemento rappresentativo di un movimento, di una città e di una cultura, non ci sta e dalla panchina fa la voce grossa. Quando tutto sembrava portare inevitabilmente alla fatidica appesa degli scarpini al chiodo, la svolta.
Si gioca in casa con il Torino, la Roma punta a consolidare almeno la qualificazione ai preliminari di Champions League, ma il Toro parte bene e si porta in vantaggio per due volte. La domenica prima l’ennesimo screzio con l’allenatore, ma Spalletti, uomo saggio e navigato, sa che nel calcio contano anche la poesia e il destino, e lo butta nella mischia a 5 minuti dal triplice fischio. Dopo il goal di Manolas, una palla che schizza via e la zampata del Pupone porta in pari il risultato. Poi un rigore, forse dubbio. Lo calcia lui, inevitabilmente, come contro l’Australia nel 2006. Perché quando c’è da prendersi delle responsabilità non si è mai tirato indietro. La mette alla destra del portiere, viene giù l’Olimpico e sugli spalti Alessio piange dall’emozione, inquadrato da tutte le telecamere del mondo. “Non ho mai pianto per una donna, per Totti sì” – dirà dopo essere stato accolto a Trigoria dal Capitano della sua vita. Quello di Totti diventa istantaneamente un “selfie” nella storia, due goal in 5 minuti e 3-2 per la Magica. E pensare che Spalletti nella conferenza prima della partita aveva affermato “le partite non le vince un giocatore da solo, ma può far perderle un solo giocatore”. Ne sei ancora così sicuro Luciano?
Questa storia dai tratti quasi omerici ci racconta un calcio che non c’è più, per il quale paradossalmente troppo spesso si punta ad accelerarne la scomparsa. Io ritengo che gli schemi (dai quale ne dovrebbe conseguire economia), nel calcio come nella vita, vadano sovvertiti qualora si possa permettere a qualcuno ancora di vivere delle emozioni vere. Lo sport è soprattutto questo, nasce per questo. Per far divertire la gente che dopo una lunga giornata di lavoro non aspetta altro che osannare il proprio campione prediletto. E se Totti è in panchina? Non è lo stesso. Forse tutta questa storia, le incomprensioni con l’allenatore, le forzature verso la fine di una carriera, hanno soltanto spronato Francesco a fare meglio. In tre partite si è dimostrato decisivo, segno del fatto che può ancora dare, a modo suo. Perché lui vuole rimanere un’icona fino alla fine, non vuole guadagnare i milioni da club esteri di zone remote del mondo, per andarsene in sordina e al contempo non tradire i suoi colori. Lui a Roma vuole restare, fino alla fine, fino a quando qualcuno piangerà dagli spalti al grido di “c’è solo un capitano”.

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