Dodici donne, di cui una incinta, hanno “spaventato” gli abitanti di Gorino a tal punto da costringere ad alzare delle vere e proprie barricate. Dodici comuni della Capitanata, compreso l’Ente Provincia, da tempo provano a porsi come risposta a questa “non-Italia” definita così dal Ministro Alfano. Infatti, dall’ultimo rapporto immigrazione, stilato dal Ministero dell’Interno, la Puglia è risultata essere tra le regioni italiane che, per numero di adesioni, ha più insistito sulla via dello Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Un po’ per necessità (date le emergenze che riguardano l’accoglienza diffusa), un po’ per la disponibilità degli enti locali (che da questi progetti ne ricavano ricadute positive in termini di occupazione) anche sul territorio dauno sono tanti gli esempi di attuazione di un sistema di accoglienza che è generalmente inteso come quello che sta dando le più grandi soddisfazioni in termini di riuscita. La Cgil, dopo i fatti di Gorino, ha addirittura richiesto di implementare queste misure poste in essere dal Ministero dell’interno e già aumentate dell’oltre il 50% in due anni su scala nazionale; per le quali spetta ai singoli Enti presentare istanza, formulando una certa progettualità da appaltare in gestione a cooperative o associazioni operanti nel terzo settore. Al di là delle esperienze consolidate nei grandi centri di Capitanata, come a Foggia, Manfredonia e Cerignola, hanno attirato una certa curiosità gli hub di accoglienza, di più recente formazione, istituiti nei piccoli centri dei Monti Dauni, dove il problema dello spopolamento incide – o dovrebbe incidere – e non poco sull’apertura al diverso. La maggior parte degli Sprar del Subappennino sono gestiti dalla Cooperativa Iris di Manfredonia, che così come avvenuto a Candela, Rocchetta e Orsara, ha partecipato al progetto con un’associazione temporanea d’imprese che ha coinvolto anche la Medtraining di Foggia.

A Candela, ad esempio, il progetto è attivo dal 2014 e data la sua durata triennale è ormai prossimo alla scadenza. Il Comune ha individuato delle abitazioni di privati ai quali paga gli affitti con il Fondo Nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (FNPSA), qui risiedono i rifugiati, per il periodo variabile di durata dello Sprar che va dai 6 mesi dopo il riconoscimento dello Status giuridico di protezione ma che prevede la permanenza pro tempore anche durante tutto l’iter giurisdizionale precedente. A costoro, generalmente di nazionalità mediorientali o africane, viene corrisposto anche il pagamento del vitto, delle spese medicinali e di un pocket money di €2,50 a testa, soltanto per i giorni in cui  partecipano alle attività messe in calendario dagli operatori dell’accoglienza. A pochi passi dal Palazzo Ripandelli, nel caso di Candela, vi è poi uno spazio formato da moderni locali comunali, dove i rifugiati tengono dei corsi di italiano, si incontrano e proseguono il loro percorso integrativo.

“All’inizio non è stato affatto facile” – spiega Ivana Di Gianvittorio, responsabile del Centro Sprar candelese. “In una comunità di 2800 abitanti, salta facilmente all’occhio la presenza di 30 uomini di colore che a causa del pregiudizio e della poca abitudine ad incontrare il diverso, hanno inevitabilmente generato una certa apprensione iniziale. Ma poi devo dire che, anche grazie allo splendido lavoro del nostro team, ogni pregiudizio è stato superato e adesso i nostri ospiti fanno parte integrante della nostra comunità”.

2016-10-26-photo-00000001Mentre uno di loro mostra fiero la patente di guida appena conseguita, altri nella stanza affianco stanno preparando il compito di italiano, ascoltando i consigli di una giovanissima professoressa.

“Ognuno ha una sua storia alle spalle – spiega la psicologa, Maria Antonietta Tucci – e noi dobbiamo dare loro gli strumenti per superare definitivamente quello che hanno vissuto. Il pregiudizio lo si supera con la conoscenza e noi abbiamo provato a far conoscere questi ragazzi, a presentarli per quello che sono e devo dire che la comunità di candela ha risposto alla grande”.

Il doppio ruolo della psicologa è forse quello più delicato, accanto all’operato del legale che deve sbrigare le innumerevoli pratiche burocratiche. Il supporto motivazionale infatti, è rivolto anche agli operatori dell’accoglienza e all’operatrice dell’integrazione (almeno 6 persone a Candela) che quotidianamente e anche ben al di là di quanto dovrebbero fare sulla carta, si occupano dei problemi dei rifugiati. Questi, così come testimonia la raccolta fotografica affissa sui muri dello Sprar, negli ultimi tre anni, hanno preso parte alle più partecipate iniziative di piazza organizzate nel centro del subappennino meridionale.

“Anche queste occasioni – continua la Di Gianvittorio – sono servite a favorire l’approvazione della comunità che oggi guarda con affetto a queste persone. In questo senso, è stata fondamentale anche la collaborazione dell’Amministrazione Comunale che ci ha sempre accompagnati in ogni nostra esigenza e difficoltà. Ma non è tutto ‘rose e fiori’, per quanto riguarda il sistema dello Sprar. Purtroppo la burocrazia italiana ha dei tempi più dilatati rispetto a quelli dell’integrazione e, soprattutto per l’accesso alla documentazione personale servirebbe un canale preferenziale per chi usufruisce di questo strumento, mentre invece troppo spesso si verificano ritardi che creano insicurezza tra i rifugiati”.

Le discriminanti che incidono sulla volontà degli assegnatari di rimanere o meno nel centro designato per la loro accoglienza, sono la qualità dei locali individuati, l’accettazione collettiva e il target di riferimento del progetto. Di fatti, le differenze tra i vari progetti attivati sui Monti Dauni stanno proprio in questi passaggi. Se a Candela la presenza di massimo 30 uomini adulti non ha generato scompiglio, non è accaduto lo stesso a soli 9 chilometri di distanza. A Rocchetta Sant’Antonio, infatti, prima dello scorso luglio, prima dell’avviamento di un progetto Sprar dedicato a rifugiati uomini e adulti, la popolazione ha presentato in Comune una raccolta firme per richiedere il cambiamento della connotazione sociale dei beneficiari, temendo un’eccessiva carica testosteronica che potesse gravare sulle dinamiche relazionali interne al paese. Dopo che il Ministero ha preso atto di quanto avvenuto, ha deciso di destinare il progetto a nuclei famigliari di rifugiati, i primi dei quali, giunti nelle abitazioni individuate, hanno deciso di rifiutare per la mancanza di alcuni agi (come ad esempio la rete wi-fi) e per altre insuperabili “barricate” ideali.

“Ma nelle prossime settimane – spiega il responsabile locale del progetto, Francesco Bochicchio – arriveranno altre famiglie, così come ci hanno comunicato dal Ministero e il progetto potrà finalmente partire a pieno regime”.

Ma al momento, a distanza di alcuni mesi dal finanziamento del progetto rocchettano, nelle 5 abitazioni per 20 persone, non ancora si vedono nemmeno le ombre degli scampati alle guerre e i martiri d’oltre frontiera. Per il suo importante patrimonio di edilizia scolastica e per la disponibilità del settore educativo, allo Sprar di Orsara è stato affidato il target dei nuclei monogenitoriali con minori. In questa realtà sono nove i soggetti ospitati con la medesima formula, nello specifico di una madre con 5 bambini congolesi e un’altra madre con 2 bambini congolesi. I bambini, sin dal loro arrivo, sono stati immediatamente inseriti nel circuito scolastico-educativo dell’Istituto Comprensivo “Virgilio Salandra” di Troia, dove avranno modo di superare anche le difficoltà connesse alla nuova lingua. Fanno sapere che si trovano bene con i nuovi compagni e le maestre e che il posto dove vivono gli piace. “Stiamo cercando di individuare degli spazi comunali da dedicare alle attività collettive dello Sprar” – spiega il vicesindaco e Assessore ai Servizi Sociali, Rocco Dedda. “A Orsara per il momento abbiamo 9 persone, ma il nostro progetto ci consente di ospitare un numero massimo di 15 rifugiati e in virtù di altri arrivi vogliamo apportare delle migliorie a quanto già stiamo facendo, in un discorso più ampio che riguarda i servizi sociali nel nostro paese”. Tutte le esperienze, però, condividono le medesime fragilità e i medesimi interrogativi. Al di là della positiva esperienza nel lasso di tempo dello Sprar, la vera sfida inizia al termine del periodo – piuttosto limitato – in cui gli ospiti seguono la programmazione a loro dedicata. La riuscita del processo integrativo sta proprio nella permanenza dei singoli nuclei insediati, anche dopo il termine del progetto, anche quando i rifugiati accolti sono chiamati a muoversi sulle loro gambe tra le strade dei centri che li hanno accolti.

Nonostante l’accoglienza rifugiati, ad Orsara, sia ancora in fase di collaudo, il vicesindaco Rocco Dedda, dimostra di avere già le idee chiare sul potenziamento del progetto Sprar. “Visto che nei comuni dei Monti Dauni ci sono diverse esperienze di questo tipo – spiega- andrebbero messe in rete, sono un unico coordinamento che potrebbe, in questo modo, migliorarne la gestione. A mio modo di vedere, si tratta di uno strumento molto efficace, sia perché è orientato a stabilire un rapporto diretto con la persona che arriva, sia perché mette in moto una certa economia, mediante il pagamento degli affitti e l’impiego dei giovani profili professionali che altrimenti sarebbero più esposti alla disoccupazione”. La ricetta, al fine del buon funzionamento, non è unica per tutti i comuni dove si attiva lo Sprar. Dedda lo riconosce e racconta come è avvenuto l’avvicinamento a questo progetto, nel suo comune. “Abbiamo fatto delle riunioni preliminari, coinvolgendo tutte le associazioni del territorio, per capire se ci fosse la reale disponibilità. Una volta avuta conferma di ciò, abbiamo proseguito. Nei piccoli paesi queste iniziative sono perfette, più  difficile  a mio parere è la gestione nei grandi centri cittadini. Ecco perché mi auguro che anche altri comuni del Subappennino valutino la partecipazione al bando ministeriale”.

Il nostro piccolo centro è da sempre sinonimo di accoglienza e di ospitalità”. Con queste parole esordiva l’intestazione della raccolta firme del Comitato “Rocchetta – No al progetto Sprar”, mediante la quale 500 cittadini, su 1900 abitanti, si erano messi di traverso all’arrivo di 20 rifugiati adulti di sesso maschile. “L’amministrazione comunale ha aderito senza alcuna consultazione popolare” riportava il testo depositato all’ufficio protocolli, all’indomani della partecipazione formalizzata lo scorso luglio.

“Questo paese non è stato rispettato” – racconta Assunta Troccolo, pensionata ed ex responsabile della Caritas locale. “Il tutto è stato tenuto nascosto alla cittadinanza fino al suo compimento. Per di più ci è stato detto che il comune era obbligato ad accogliere queste persone, quando chiaramente non è stato così. Noi abitanti di Rocchetta non siamo razzisti, io stessa ho lavorato per vent’anni a stretto contatto con le fasce più svantaggiate, ma non è questo il modo di attivare un progetto così importante”.

La raccolta di sottoscrizioni, in questo senso, è risultata molto proficua, perché nella pratica ha determinato un cambio nei profili richiesti per l’accoglienza. Dai rifugiati adulti – che tanto intimorivano la popolazione – si è passati all’apertura verso i nuclei famigliari di rifugiati. Ma dallo scorso luglio, dopo aver aggiustato il tiro, la cooperativa Iris su Rocchetta non ha ancora avuto modo di seguire, per un periodo di tempo continuativo, una di queste famiglie inviate dal Ministero. Secondo quanto raccontato dagli stessi cittadini, i primi avventori dello Sprar rocchettano hanno verificato la qualità degli stabili che venivano messi a loro disposizione e hanno deciso conseguentemente di rinunciare al loro pocket money.

“Inoltre- continua la Troccolo – bisognerebbe verificare se gli  operatori dell’accoglienza selezionati abbiano realmente le capacità per svolgere queste funzioni o siano soltanto amici o parenti degli amministratori”.

Mentre i responsabili della cooperativa, già arruolati nel team locale , confermano che a breve dovrebbero arrivare altri beneficiari, il luogo simbolo dello Sprar inattivo di Rocchetta è l’antica casa di Via Castelli, alla quale si accede mediante una di quelle ripide scale caratteristiche dei piccoli centri dei Monti Dauni. All’interno, letti intonsi, stufe elettriche ancora nei cartoni e giocattoli imballati, lasciati lì dalle prime famiglie, in segno di protesta. “Il nostro paese è sempre molto sensibile al tema dell’integrazione, tant’è che non molto tempo fa abbiamo organizzato un incontro molto partecipato con lo scrittore Magdi Allam” – sottolinea Luigi Ruperto, presidente del Club Liberal Monti Dauni. “Ma se dalle nostre comunità emigrano tutti perché non c’è lavoro che senso ha portare altre gente che non avrà speranza di integrarsi alla fine del progetto? Il Comune aderisce soltanto per avere soldi e per dare qualche posto di lavoro ma queste persone che dovrebbero arrivare meritano rispetto e i migliori auspici per una vita più dignitosa rispetto a quella che hanno vissuto finora”.

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