In questi ultimi mesi la mozione proposta dal Movimento 5 stelle pugliese, che ha previsto l’istituzione del 13 febbraio come «giornata della memoria per i morti meridionali del processo unitario», sta suscitando numerose polemiche. Gli storici del dipartimento Disum dell’Università di Bari e delle altre università pugliesi assieme a Lea Durante docente dell’Università di Bari hanno deciso di lanciare una petizione per chiedere al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, un uso corretto e non strumentale della storia.

Nella petizione vengono presentati diversi motivi per i quali non dovrebbe esserci questa giornata: perché la questione meridionale non è cominciata dall’Unità e sarebbe una giornata di stampo neo-borbonico. Nell’articolo pubblicato dal Manifesto il 5.8.2017, la professoressa Lea Durante ha sottolineato come l’istituzione della giornata della memoria delle vittime meridionali del processo unitario sia un’espressione della lottizzazione della memoria contemporanea e l’espressione localistica della ‘piccola patria’, della nuova comunità che inventa, populisticamente, la tradizione. Al meridionalismo risentito e nostalgico, la Durante, oppone il meridionalismo progressista di Antonio Gramsci per il quale la ‘quistione meridionale’ è una ‘quistione nazionale’, in quanto solo le forze operaie e contadine, unite in un blocco sociale anticapitalistico, possono rovesciare i rapporti di produzione e rivoluzionare lo stato borghese.

L’analisi gramsciana sul Risorgimento è molto complessa e non basta scrivere della consapevolezza di Gramsci sui limiti dell’Unità d’Italia, bisogna, invece, evidenziare alcune questioni che rimandano allo sfruttamento e alle violenze dei ‘piemontesi’ sulle popolazioni meridionali.

Nel Quaderno 19 dei Quaderni dal carcere, Gramsci sostiene che le origini del moto risorgimentale sono da ricercare nel processo storico europeo. Gli interessi geopolitici di Francia, Austria, Russia e Inghilterra sono centrali nello sviluppo del Risorgimento e nella sezione dedicata alla quistione orientale, Gramsci, citando il libro di Nitti ‘Capitale straniero in Italia’, pone in risalto gli accordi economici tra i Borbone e la Russia (nell’Itala meridionale sono presenti 150 milioni di obbligazioni statali russe) in netto contrasto con gli interessi inglesi. L’Inghilterra produce il 50% della produzione tessile mondiale e nutre interessi in Sicilia; il paesino etneo di Bronte è stato donato nel 1799 all’ammiraglio Nelson dal re Ferdinando III di Sicilia, al fine di ringraziare l’Inghilterra e l’ammiraglio per l’aiuto militare ricevuto contro la minaccia francese. La stessa Bronte è il teatro sanguinario dell’eccidio di contadini nel 1860. La spedizione repressiva e violenta è guidata dal generale Nino Bixio che incurante spara sui contadini. Lo stesso Gramsci a tal proposito scrive che i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni (anche quelli dopo la spedizione dei mille e l’Unità d’Italia) sono stati spietatamente schiacciati dalla guardia nazionale anticontadina.

A tal proposito il filosofo comunista sostiene che tale aspetto violento e repressivo della spedizione dei Mille non è stato mai studiato e analizzato.

L’Unità non è avvenuta su una base di uguaglianza ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno. Nell’articolo incompleto ‘Alcuni temi della quistione meridionale’, apparso su ‘Ordine Nuovo’ il 3 gennaio 1920 Gramsci sostiene come la borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento. Nella proposta nazionale dell’unità di operai e contadini, citata anche dalla professoressa Durante, Gramsci evidenzia come la ‘quistione contadina’ si sia storicamente determinata e abbia assunto due forme tipiche: la ‘quistione meridionale’ e quella vaticana. Nell’analizzare la ‘quistione meridionale’ egli nota l’importanza storica di modificare l’indirizzo politico e l’ideologia generale del proletariato industriale forgiato, inconsapevolmente, dall’ideologia borghese. Cosa trasmette l’ideologia borghese? Il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia, i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei barbari; se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali e barbari. Questa visione dei meridionali assume caratteristiche pseudoscientifiche con i sociologi positivisti Sergi e Ferri.

La storia dell’Unità d’Italia è stata sempre presentata come una grande favola, nella quale i grandi eroi come Garibaldi o il generale Cialdini per spirito di solidarietà e di amore sono venuti a liberarci dalla grande dittatura dei Borbone. Eppure in tanti si sono accorti che nonostante tutto l’Italia non è un paese egualitario: il Sud Italia con i suoi disagi sociali ed economici e il Nord Italia forte e industrializzato. Per quanto tempo tanti meridionali, definiti fannulloni, sono stati costretti ad abbandonare le loro terre per tentare fortuna al Nord?

Il Regno delle due Sicilie è, prima del 1860, uno dei regni d’Europa maggiormente sviluppati dal punto di vista industriale, dopo Francia e Inghilterra. Lo sviluppo industriale raggiunge numeri come 1.600.00 addetti contro i 1.100.00 di tutta Italia (Pino Aprile in Terroni). Fioriscono ferrovie, battelli a vapore, industrie, teatri e Università. Però tutto ciò che determina la ricchezza del Sud Italia, improvvisamente, dopo l’Unità, scompare, o meglio ancora, finisce tutto al Nord.

È inevitabile affermare che, mentre la situazione al Sud è quella che abbiamo appena descritto, al Nord le cose vadano diversamente. Il Piemonte, ormai, si ritrova sull’orlo della bancarotta e viene stabilito un unico debito pubblico nazionale nonostante il debito pubblico del Piemonte incide per oltre il 50% del debito totale, mentre la popolazione del Piemonte e della Sardegna costituisce solo il 13% di quella nazionale. La resistenza all’incremento della tassazione, nel sud prende il nome di brigantaggio e ai briganti spetta una violenta repressione. Tra le stragi più atroci compiute nel corso dell’Unità d’Italia non si possono non menzionare le stragi di Pontelandolfo e di Casalduni. L’obiettivo delle truppe guidate dal generale Cialdini è proprio quello di sedare violentemente le rivolte. Non a caso abbiamo testimonianze di soldati come Carlo Margolfo, il quale nelle sue memorie raccolte nell’opera “Mi toccò in sorte il numero 15”, racconta in maniera minuziosa delle violenze commesse dall’esercito di Cialdini.

La giornata per le vittime meridionali non può essere semplicemente rubricata come una giornata neo-borbonica. Senza nostalgie neo-borboniche la memoria serve a ristabilire quanto la storia raccontata ha tenuto nascosto perché forse è il tempo che il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica diventino due cose conciliabili in Italia (Pasolini).

 

Francesco Grillo, dottore in Filosofia e autore del libro Giovani e Politica: una crisi da superare

Arturo Gianluca Di Giovine, docente di Storia e Filosofia nelle scuole secondarie di secondo grado.

2 COMMENTI

  1. Purtroppo la Storia la scrivono a loro fregio chi vince, a noi spetta il compito di stabilire le verità storiche al fine di riequilibrare le differenze socio politiche economiche che da tali distorsioni si sono incallite all’interno delle nostre società.

  2. Peccato, dottor Grillo, che l’affermazione secondo la quale il Regno delle Due Sicilie sarebbe stato una delle potenze industriali più sviluppate, dopo Francia e Inghilterra, sia falsa. Quanti km. di ferrovia costituivano la sua rete ferroviaria nel 1861? 126 al massimo. Oseremo confrontarli con gli appena 11.089 dei paesi tedeschi, i 1051 della Svizzera, i 1730 dell’insignificante Belgio o i 53.416 degli Stati Uniti sempre nello stesso anno? E vogliamo parlare dell’industria cotoniera? Ben 70.000 fusi attivi nel regno borbonico nel 1860. Nel Regno Unito? 31 milioni. In Francia? Cinque milioni e mezzo. Due milioni e duecentomila ne avevano i soliti tedeschi. Il piccolo Belgio? 612.000. Non trascuriamo neppure la strepitosa produzione di ghisa. La Germania arrancava con le sue 422.000 tonnellate annue, il Belgio non superava le 366.000, gli ungheresi ne producevano non più di 80.000. Nulla, a confronto delle forse 15.000 del regno borbonico. Questo giusto per dare un’idea della distanza che intercorreva tra l’economia dello stato borbonico e quella di paesi che già conoscevano la rivoluzione industriale.
    Quanto agli occupati nelle manifatture, è noto fin dal 1861 – si leggano le “considerazioni generali” premesse a “Statistica del regno d’Italia. Censimento generale. Popolazione”, volume terzo, Firenze 1866 -, che quei dati sono del tutto inutilizzabili, essendo stato compilato il censimento senza una preventiva definizione del termine “manifattura”. Basti pensare che secondo quella statistica, nei paesi siciliani al di sotto dei seimila abitanti, il 15,7% della popolazione sarebbe stata occupata nelle manifatture. Quali e quante fabbriche potessero sorgere in piccoli centri agricoli, spesso privi di strade di comunicazione e con una popolazione quasi interamente analfabeta, credo appaia chiaro a chiunque.
    Per controllare le mie cifre, si possono utilizzare i saggi corredati da ricca documentazione statistica della “Storia economica d’Europa”, volume quarto, UTET, Torino1980.

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