Avesse avuto la capacità di essere meno impulsivo e più ragionatore, probabilmente oggi sarebbe ricordato come uno dei maratoneti più forti di sempre. Invece, negli almanacchi sbiaditi degli anni ’30 il nome di Michele Fanelli compare soltanto tra gli atleti italiani che si sono distinti maggiormente in patria e in parte anche oltreoceano, nell’arco del ventennio fascista.

Per Fanelli, originario di Orta Nova, classe 1906, correre significava guadagnarsi passo dopo passo un riscatto sociale dalle povere origini contadine della sua famiglia. Testardo com’era, si racconta che dal centro dei Reali Siti si recasse a Foggia, a piedi, alla ricerca di lavoro. Si spostava instancabilmente, sotto il sole cocente della Capitanata, con la resistenza di uno stallone e il fiato di cento polmoni. Alla fine fece proprio del suo spostarsi la sua ragione di vita.

La rapida scalata verso l’Olimpo della disciplina prescelta iniziò nel 1931 quando Michele tornò in Italia dopo una breve parentesi all’estero e da Orta Nova prese parte ai campionati italiani raggiungendo le prime insperate vittorie. Erano i tempi in cui si correva con scarpette fatte a mano dal calzolaio di fiducia, tempi in cui quei 42,195 km lasciavano anche vittime per strada a causa della disidratazione. Ma erano soprattutto i tempi in cui il processo di fascistizzazione della società era in corso e proseguiva a vele spiegate. Fanelli, che veniva da una famiglia contadina, non nascose mai il suo fermo e convinto credo comunista, anzi lo ostentava a tal punto dal rifiutare il trofeo a forma di “M” di Mussolini dopo aver vinto la gara più importante della sua vita.

“Quando c’era il passaggio del duce nelle vicinanze, per precauzione lo mettevano in galera, come testa calda” – ricorda il nipote Pasqualino Di Gianni che ne ha raccolto le memorie sul suo blog.

I giorni in cella, le manganellate e l’olio di ricino non piegarono le sue idee politiche, testardo com’era, anche se di lì a breve avrebbe avuto la possibilità di rappresentare l’Italia fascista alle Olimpiadi di Los Angeles. Chiusero un occhio, perché sarebbe stato un peccato non contare sulle sue prestazioni, anche perché nei mesi prima dell’avventura a cinque cerchi aveva conquistato il Giro di Roma, il Giro di Milano e altre gare di prestigio in giro per la Penisola. Entrò dunque di diritto nella spedizione olimpica statunitense dove raggiunse il suo picco di notorietà, anche se non riuscì a dare seguito alle grandi aspettative che tutti avevano su di lui. Alla maratona per la medaglia d’oro si classificò 13esimo. In questa gara emerse tutta la sua impulsività che pagò, a lungo andare, alla presenza di avversari di grandissima esperienza.

j3vtMa questo passaggio deludente segnò la svolta della sua carriera e così, dopo una parentesi ad allenarsi tra le amate e odiate campagne di Orta Nova, prese parte ad un altro appuntamento importantissimo: la maratona Internazionale di Torino. Fanelli allo sparo della pistola a salve si presentò sempre con le solite scarpette lavorate dal fidato artigiano Nicolino di Orta Nova e con uno strano unguento miracoloso nella bottiglietta. A quella gara si mostrò più attendista, centellinando le energie e riuscendo a vincere con il tempo di 2h31’36’’. La scalata di Fanelli ebbe finalmente inizio, il suo riscatto anche. Nel 1934 si tolse un’altra soddisfazione vincendo il titolo italiano e quello europeo di maratona. Subito dopo stabilì il record mondiale delle 25 miglia, cioè sui 40 chilometri (2h26’10”). Per 20 anni il contadino di Orta Nova si affermò come punto di riferimento per la disciplina, fino all’inizio della guerra che inevitabilmente rallentò la sua scalata, superata la soglia dei quarant’anni di età.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, per i suoi grandi meriti sportivi,  la città di Foggia gli affidò le responsabilità e la custodia dell’impianto Comunale dello stadio Pino Zaccheria, fino a quando negli anni ’50 decise di trasferirsi a Torino, dove impiegò le sue interminabili energie come operaio in una fabbrica, perché ai tempi di Michele lo sport non pagava.

“In vecchiaia – racconta il nipote – andava ancora a piedi alla fabbrica, 16 chilometri ad andare e 16 a tornare”.

Non mise mai da parte la sua passione, fino a quando i suoi piedi consumati da migliaia di chilometri di strada si arresero prima di lui. Morì sotto la Mole il 31 dicembre del 1989, lontano da quelle strade polverose di campagna che gli fecero scoprire la sua dote da predestinato. Oggi la sua terra ha rimosso quasi totalmente il ricordo di quel corridore mingherlino che aveva provato a farne grande il nome in giro per il mondo. L’unico segno della memoria locale è quello stadio di Orta Nova, dove oggi si progettano lavori di riqualificazione e che già da diversi anni ha preso il suo nome in segno di riconoscenza. Ma i tratti della leggenda si scoloriscono lasciando intendere che forse siano da preservare ulteriormente. Non una targa, non un iniziativa pubblica per ricordarlo a pochi giorni dall’anniversario della sua morte. Così le giovani generazioni dimenticano un grande eroe in movimento, libero, così come sono i bambini nelle loro corse insensate.

“E’ morto con un buco nel piede, mal curato, aveva consumato le suole correndo da uomo libero” – ricorda il nipote. “Per le strade del mondo, senza soldi, senza trucchi di medicine, con le scarpette fatte a mano dal calzolaio del paese”. 

LA SCHEDA. Probabilmente furono due i segreti del compagno maratoneta Michele Fanelli: la sopportazione alla fatica, grazie ad anni e anni di lavoro nei campi del Tavoliere, e quel fisico asciutto e minuto che gli consentiva di spostarsi agevolmente trascinando un peso esiguo. In gergo ciclistico il fisico di Fanelli sarebbe stato paragonato a quello degli scalatori di alta montagna. Infatti i registri degli atleti dell’epoca riportavano un’altezza di soli 166 centimetri per un peso di 56 kg, delle misure “slim” che però erano accompagnate da una tonicità muscolare temprata da anni di allenamenti e corse allo sfinimento nelle zone rurali della provincia di Foggia. Così come riportano alcuni documenti che raccontano la sua storia, un medico, dopo averlo visitato disse “quest’uomo ha un cuore da cavallo”. E probabilmente fu la descrizione più azzeccata considerati i successi che nell’arco di un ventennio riuscì a portare a casa il corridore foggiano. Le foto dell’epoca lo ritraggono con un volto asciutto e con una capigliatura brizzolata. Correva molto spesso a piedi nudi, con le  mutandine per lasciare liberi gli arti inferiori da impedimenti. All’epoca gli equipaggiamenti da corsa erano cose da borghesi e uno come Michele non poteva di certo permettersi di abbigliarsi nella maniera più consona. A lungo andare fu proprio il suo fisico a venir meno, tant’è che come ha raccontato il nipote, l’epico maratoneta di Orta Nova morirà in seguito all’aggravarsi di una ferita al piede.

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