A quanti sarà capitato di covare un desiderio interiore di rompere gli schemi imposti dalla famiglia, dal contesto in cui si vive o dalla società in genere? Beh, credo che tutti costoro che si siano ritrovati almeno una volta in questa situazione potranno apprezzare con grande coinvolgimento “Bohemian Rhapsody”, il film di Bryan Singer ora in tutte le sale italiane. La continua ricerca della propria essenza, al di là degli steccati ideologici imposti dalla società, è il motore della storia dei Queen, di una carriera musicale che ha riempito tutti gli stadi più grandi del mondo, e quindi è il motore anche del film che si muove a ritmo di rock’n roll. “Non sarai mai nessuno se vuoi essere qualcosa che non sei” – dice Bomi Bulsara al figlio Farrokh, quasi indicandogli la strada maestra verso l’affermazione della sua poliedrica personalità.



Ritengo che per dare giustizia ad una delle band più grandi di sempre, non basti un film, ma serva un evento mondiale. Notando che l’uscita della pellicola, in tutti i paesi in cui è avvenuta, si sia trasformata in una sorta di tributo globale, con occasioni sparse qua e là per ricordare Freddie, posso serenamente concludere che il film, almeno per questo, possa ricevere già un giudizio positivo.
Poi è necessario entrare nel merito della pellicola. La prima cosa che salta all’occhio all’osservatore attento (e fan rimasto orfano di Freddie) è l’interpretazione di Rami Malek, l’attore di Mr. Robot e di “Una Notte al Museo”. Malek è più magro del frontman che invece era corpacciuto, ma nelle movenze sembra aver studiato parecchio. Poi quei denti sporgenti che ricordano fedelmente una caratteristica che ha reso unica l’estensione vocale di Freddie. Il film spiega bene, all’inizio, come un difetto fisico possa diventare un punto di forza, se lo si conosce, se lo si esorcizza con l’autoironia.

Detta dell’interpretazione dell’attore principale c’è la storia da analizzare. Per esigenze cinematografiche (“The show must go on”) alcune cose sono state omesse, altre sono state completamente stravolte, soprattutto a riguardo dei rapporti affettivi di Freddie, della sua bisessualità, della tempistica dei suoi outing e della prima diagnosi dell’AIDS che è avvenuta molto dopo il Live Aid, concerto che conclude il film. La scelta di far concludere la trama con l’apice massimo della carriera dei Queen credo sia stato un espediente azzeccato. Freddie si è sempre definitivo un performer – come ripreso a larghi tratti nel film – si è sempre definito l’idolo di sé stesso, alla continua ricerca della perfezione e dell’edonismo. E in virtù di ciò credo che sarebbe stato poco fedele insistere su scene del patimento e della malattia. “Non voglio essere ricordato come uno spot contro l’AIDS” perché “Too much love will kill you” e Freddie era un amatore incondizionato, nonostante fosse consapevole che gli eccessi prima o poi avrebbero presentato il conto.



Questi sono temi trattati soltanto tangenzialmente dalla pellicola, ragion per cui non sono d’accordo con la catalogazione del film nel genere “drammatico”. Freddie non sarebbe stato d’accordo, perché al netto dell’epilogo la sua vita e la carriera dai Queen è stata una grande commedia. Quando Freddie sta per lasciare il palco di Wembley si volta di spalle verso il pubblico, con Roger, Bryan e John che lo guardano mentre si amalgama al cielo londinese e all’intrattenimento che hanno saputo creare.
Poi c’è il tema dell’amicizia. “Friend will be friends” era un modo per dire che gli amici, quelli veri, quelli che si possono definire tali, restano. Ma tanti sono “moscerini” che si avvicinano per cibarsi di corpi in decomposizione, per sfruttare i momenti negativi soltanto per il proprio tornaconto. Freddie ha imparato a sue spese a diffidare dalla gente così, ma prima ne ha trovata tanta, da agenti, ad avvocati, ad impresari, agli amori… “Anyway the wind blows”.
A chi è nato in un’epoca in cui la musica racconta storie che non possiede realmente, a chi non conosce i Queen e pensa che un film sia il modo migliore per entrare in contatto con questo mondo, a chi è superficiale e distaccato consiglio di iniziare dall’ascolto dei dischi e non dal film. Consiglio di premere play su “A night at the opera” per capire subito quella mescolanza di generi che ha caratterizzato un fenomeno mondiale difficilmente riproducibile. Il film può essere un buon collante per una passione già incastrata nei muretti a secco della vostra passione. Questo è il consiglio che vi do per amare Freddie, perché è la musica che a distanza di anni ci rende ancora vicini e amanti di un simbolo generazionale: “Someone still love you”.

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