Diffondiamo integralmente il comunicato stampa a firma del consigliere comunale di maggioranza di Orta Nova, Gianluca di Giovine, in merito all’intitolazione di Via Almirante.


Con 151 voti favorevoli, nessuno contrario e 98 astenuti, il Senato, mercoledì 30 ottobre, a conclusione dell’esame delle mozioni per l’istituzione di una Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, ha approvato la mozione n. 136 della senatrice a vita Liliana Segre.

Liliana Segre è stata una bambina che ha subìto sulla propria pelle le cruente conseguenze delle leggi razziali, costretta a lasciare la propria classe, perde suo padre, segregata ad Auschwitz riesce a sopravvivere e, oggi, a raccontare la sua storia. Ricordo le parole pronunciate dalla senatrice durante un incontro con le scolaresche a Milano l’anno scorso:

“Ero una bambina serena e tranquilla, ma nel ’38 fummo travolti da quelle tremende leggi razziali, mi sentii dire, ad un tratto, che a scuola ero stata espulsa e, diventammo di colpo, cittadini di serie b, nemici della patria. Da bambina spensierata e sciocca che ero, cominciai a capire quanto ero importante per la mia famiglia, che non sapeva come reagire a ciò che ci stava accadendo, poiché si viveva ancora profondamente il sentimento della patria. Eravamo contrabbandieri delle nostre vite, l’Italia non ci voleva più. […] La persecuzione è la mancanza totale di dignità a cui volevano farci arrivare. Quando ci presero per portarci nei campi, a calci, pugni, e bastonate venivamo caricati sui treni-bestiame: nei vagoni non c’era nulla, solo della paglia e un secchio, che era il simbolo del degrado. Ancora non sapevamo di essere animali destinati al macello […] Avevo 13 anni, numero di matricola 75190, nella cella 102, l’ultima casina che ho condiviso con mio padre, che distrutto mi chiedeva scusa per avermi messo al mondo. Arrivati lì, nella prima baracca ci spogliarono, mi dissero di dimenticare il mio nome, non ero più una persona, ero diventata un pezzo. I soldati passavano, ridevano, disprezzavano, ci dicevano parolacce e ci sputavano addosso, dopo averci tolto tutto. Entravi in un modo, uscivi ed eri già un’altra. Cominciai una vita assurda: solo la fiamma del crematorio illuminava quelle notti.”

Parole forti, come un pugno nello stomaco, che non smetteranno mai di farci riflettere, di pensare e ri-pensare alla banalità del male di chi non ha scelto di opporsi a quel genocidio. Oggi Liliana Segre vive e si sposta con la scorta, in quanto ha subito minacce razziste, preoccupanti non solo dal punto di vista fisico, ma anche culturale, segno di un paese che rischia una deriva de-umanizzante.

Di fronte a simili atti cosa possiamo fare? Ognuno di noi può preoccuparsi di lottare quotidianamente contro i fenomeni dell’intolleranza e del razzismo partendo dalle proprie località di appartenenza. Senza alcuna strumentalizzazione o sciacallaggio politico, ritengo necessario, nell’ottica della città educativa, evidenziare la necessità storica di non ammettere nel nostro paese l’intitolazione di una via a Giorgio Almirante. Non possiamo, non per ragioni di odio politico o per una pericolosa logica amico-nemico, ma per una ragione educativa, formativa, inter e trans-culturale.



Non si possono dimenticare le parole scritte da Giorgio Almirante il 5 maggio 1942 sul giornale “La difesa della razza” (rivista diretta da Telesio Interlandi) : “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore […] Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”. Abbiamo di fronte a noi, sotto i nostri occhi due diverse testimonianze, ora tocca scegliere.

Comunicato Stampa
Di Giovine Arturo Gianluca.

3 COMMENTI

  1. Nazismo e comunismo, fratelli nella violenza
    Purificazione, guerra, annientamento, applicazione di definizioni animalesche al nemico per disumanizzarlo e renderne più facile l’eliminazione, l’idea onnipresente di fare tabula rasa del passato per costruire una “società nuova”, il razzismo declinabile come elemento biologico o di classe, infine il nichilismo. Sono questi i molti riflessi mandati dai frammenti esplosi dello stesso specchio totalitario: e tutti possono ricondursi al nazismo e al comunismo, indifferentemente. Questa è la teoria di Luciano Pellicani – titolare della cattedra di sociologica politica presso la Luiss di Roma e direttore di Mondoperaio – che
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    smonta fin dalle primissime pagine del suo recente Lenin e Hitler. I due volti del totalitarismo (Rubbettino, 2009, pp. 138, euro 16,00) il luogo comune di una “differenza etica” tra nazionalsocialismo e comunismo, il primo visto come spietato esaltatore della razza superiore e il secondo dell’egualitarismo. Il seme della violenza, infatti, emerge – a smentire coloro che vedono in Stalin l’origine della corruzione del comunismo – alberga già in Lenin (il lucido teorico dell’applicazione del Terrore, nonché dei primi campi di concentramento, della definizione dei nemici come “insetti” e inventore della polizia politica), ma ancor prima nei padri della teoria marxista, gli stessi Marx ed Engels. I quali – come osservò lo stesso Lenin – non avevano lasciato «alcuna opera o nessuna frase […] circa la futura società socialista in cui si parli della pratica, concreta difficoltà che si troverà di fronte la classe operaia dopo aver preso il potere». Solo negazione del capitalismo e necessità di abbatterlo ad ogni costo. E dunque, la società borghese si trasforma in un «deserto popolato di bestie feroci» (Marx in Peuchet o del suicidio), il partito in un «partito distruttore» (Marx ed Engels in La sacra famiglia), evocante una «lotta di annientamento e terrorismo senza riguardi» (Engels in Il panslavismo democratico) che avrebbe fatto «sparire dalla faccia della terra non soltanto classi e dinastie reazionarie, ma anche interi popoli reazionari» (Engels in La lotta dei magiari). Ecco perché uno studioso come Branko Horvat concluse che «il marxismo è una teoria critica del capitalismo e della sua distruzione, non una teoria del socialismo». Il germe della violenza, pensata come possibile e anzi auspicabile per un fine superiore, è già qui. Ben prima di Lenin e Stalin, ben prima dei Gulag, degli stermini e delle carestie costruite ad arte.

    La violenza “levatrice” di un nuovo mondo echeggia sia nelle parole del comunista Trockij sia in quelle del nazista Goebbels. In entrambi lo stesso desiderio di mutare radicalmente la realtà. «Il che – scrive Pellicani – fa del totalitarismo una rivoluzione permanente animata da una hybris il cui radicalismo è tale che essa può e deve essere definita satanica: infatti è proprio del diavolo volere imitare Dio. Ma, per prendere il posto di Dio come (ri)creatore del mondo, è imperativo distruggere tutto ciò che esiste, onde avere a disposizione la pagina bianca – l’immagine, come è noto è di Mao Dse-Dong – sulla quale scrivere una storia totalmente altra rispetto a quella passata. E’ per questo che il totalitarismo concepisce la lotta politica come una spietata guerra di annientamento che deve investire la totalità della vita sociale: istituzioni, valori, idee, costumi, sentimenti, ecc». Ecco, dunque, la radice del nichilismo. «Distruggeremo tutto ciò che è vecchio», urlava Lenin. «Saremo noi a ringiovanire il mondo», ripeteva Hitler.
    La purificazione del mondo passando per l’annientamento degli “agenti inquinanti” (che fossero gli ebrei o i borghesi capitalisti) diventa quindi un passaggio fondamentale: il terrore si fa dunque catartico, giustificabile, applicabile. Espellere i “nemici” dalla società perfetta richiede quindi la creazione di campi di concentramento dove raccogliere, prima di eliminarla, la “feccia” che ostacola l’avvento del “nuovo mondo”.
    Il Partito (naturalmente unico) si trasforma in un’avanguardia di illuminati, una sorta di setta dal carattere “religioso”, un enclave di “uomini puri” il cui scopo supremo è sradicare il male. Tale missione suprema finisce, dunque, per “santificare la violenza”. Il dolore di oggi è il mezzo per raggiungere il “paradiso” di domani, e più la violenza è radicale, prima allevierà le sofferenze e prima introdurrà il “mondo nuovo”. La violenza, in questa interpretazione che Pellicani acutamente definisce “gnostica”, si fa – razionalmente – “strumento di salvezza”.

    Nazismo e comunismo, fratelli a sinistra
    A trasportare nazismo e comunismo al centro della scena politica e culturale dei primi decenni del Novecento furono essenzialmente due fattori: il radicalismo anti-borghese degli intellettuali e la “mutazione genetica” avvenuta negli uomini reduci dalla Grande Guerra.
    I primi avevano svolto, come scrive Pellicani, «una quotidiana azione di delegittimazione delle istituzioni della società aperta». Stato di diritto, democrazia parlamentare, economia di mercato, proprietà privata, individualismo, insomma «tutto il mondo moderno, soprattutto anglo-sassone, preso in blocco», come scriveva Julius Evola, erano agli occhi di questi
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    Lenin
    intellettuali il nemico da abbattere. La condanna della borghesia e dei mercatores, abili nell’uso del denaro e “agenti di Satana”, risaliva addirittura al Basso Medioevo. L’astio verso la borghesia – classe prettamente economica, il cui potere non nasceva da legittimazione democratica, né da un particolare carisma religioso o militare – assumeva i tratti del potere “che usurpa”. La borghesia, che tutto trasformava in merce (anche i valori), diventa così il bersaglio, per citare Pellicani, di «intellettuali assetati di assoluto – gli orfani di Dio – e quindi naturalmente ostili alla civiltà dell’Avere». Tradizionalisti e rivoluzionari – religiosi e laici -, intellettuali di sinistra e di destra, si allearono spiritualmente contro la società aperta incarnata dalla borghesia. «La distruzione senza limiti, il caos e la rovina in quanto tali – così Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo – assumevano la dignità di valori supremi».
    Il disgusto per la società borghese provato dagli intellettuali, però, sarebbe rimasto una voce flebile e minoritaria se non fosse intervenuto un agente esterno a incubare il virus del radicalismo nell’uomo della strada: la Grande Guerra. L’immenso massacro della Prima guerra mondiale, infatti, partorì un “uomo nuovo”: «Le trincee – scrive Pellicani – vomitarono una nuova genia di uomini: uomini spietati, colmi di aggressività e di risentimento, per i quali la vita […] aveva scarso valore e, per ciò, pronti a ricorrere alla violenza e predisposti a concepire la politica come la prosecuzione della guerra».
    La “chiamata rivoluzionaria alle armi” degli intellettuali, questa volta trovò terreno fertile: Nazione, Classe, Razza si trasformarono nei nuovi idoli ai quali immolare l’esistente.
    La borghesia, dunque, è il nemico numero uno, la sentina di ogni male, sia per i comunisti sia per i nazisti. Ovviamente tutta la scuola storica comunista ha propagandato la vecchia teoria del nazismo e del fascismo come “agenti del Capitale”, arrivando a sostenere, ad esempio, che Hitler fosse manovrato dall’industriale Krupp. Una tesi che – grazie all’arma dell’antifascismo – serviva a tenere il comunismo nel fronte del “bene” e della coerenza ideologica: da una parte il capitalismo e i suoi mostri, dall’altra parte il comunismo e l’avvento di una società di eguali.

    In questa furia antiborghese e anticapitalista che invece accomuna nazismo e comunismo, si può intuire la parentela “a sinistra” dei due totalitarismi. Nel Mein Kampf Hitler distilla pensieri anticapitalisti che farebbero, oggi, la felicità di qualsiasi no global: il futuro dittatore invocava «la conservazione dell’indipendenza del popolo con una lotta contro il capitale […] La lotta più aspra […] contro il capitale internazionale». Hitler si scagliava contro il dilagare della «avidità del denaro» e del «materialismo egoistico» che corrompeva il popolo, e denunciava la situazione della sua Germania, dove «il brutale scambio da povertà a ricchezza si fece più vistosamente drastico [e] sovrabbondanza e miseria vivevano l’una accanto all’altra. […] Nella misura in cui l’economia divenne padrona dello Stato, il denaro ne divenne il Dio che tutti dovevano adorare in ginocchio». Hitler proseguiva invocando la lotta per abolire «lo sfruttamento anti-sociale e indecoroso degli uomini» da parte di «datori di lavoro privi di ogni sentimento di giustizia sociale e umanità», attaccando il capitalista (naturalmente ebreo) il cui scopo era «distruggere l’industria nazionale e il commercio nazionale ».
    Per questo lo studioso Karl Polanyi giunse a scrivere (in La libertà in una società complessa) che la propaganda hitleriana si servì ampiamente di una «fraseologia
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    Adolf Hitler
    veramente bolscevica» che «incitava contro l’economia del profitto, contro le forme moderne del commercio privato, contro la servitù dell’interesse, contro il predominio dei reazionari». L’ultimo cancelliere della Repubblica di Weimar, il generale Kurt von Scleicher, giudicò il programma nazista «appena differente dal puro comunismo», mentre il generale Wilhlem Groener prese atto, da un’indagine da lui ordinata sul campo, che molti membri delle SA e delle SS erano transfughi delusi da organizzazioni comuniste e il cui fine ultimo «restava il bolscevismo». Infine, l’industriale Gustav Krupp, definì l’ideologia delle SA «una specie di bolscevismo con gli stivali ma senza cervello».
    «Voi ci chiamate strumenti di distruzione – dichiarava il futuro ministro della Propaganda del III Reich Joseph Goebbels -. Figli della rivoluzione è il nome che ci siamo dati, vibranti di entusiasmo. […] Il nostro principio è quello di sovvertire tutti i valori al punto che sarete spaventati dal radicalismo delle nostre richieste». E ancora, sempre per bocca di Goebbels: «Noi siamo socialisti […] siamo nemici mortali dell’attuale sistema economico capitalistico con il suo sfruttamento di chi è economicamente debole, con la sua ingiustizia nella distribuzione. Noi siamo decisi a distruggere questo sistema a tutti i costi. […] Lo Stato borghese è giunto alla fine. […] Il futuro è la dittatura dell’idea socialista nello Stato […] Il nazionalsocialismo è una religione nel senso più mistico e profondo della parola». Definitive e clamorose le parole di S.H. Sesselman, leader di nazisti a Monaco: «Noi siamo completamente di sinistra e le nostre richieste sono più radicali di quelle dei bolscevichi”. Altro che forza reazionaria, dunque: il nazismo fu da subito un movimento anticapitalista, antiborghese, rivoluzionario.

    Quanto al comunismo, come il suo parente “nero” esso mirava all’eliminazione del «vecchio Adamo» (parole di Lenin in Chi è spaventato del crollo del vecchio e chi lotta per il nuovo), per portare sulla scena l’uomo nuovo, il quale deve essere «un superuomo, incomparabilmente più forte, più saggio, più acuto» (Trockij in Arte rivoluzionaria e arte socialista). In Come organizzare l’emulazione?, Lenin si esprime chiaramente: «Nessuna pietà per questi nemici del popolo, nemici del socialismo, nemici dei lavoratori. Guerra a morte ai ricchi e ai loro reggicoda, gli intellettuali borghesi […] L’obbiettivo comune e unico: ripulire il suolo della Russia di qualsiasi insetto nocivo, delle pulci: i furfanti; delle cimici: i ricchi». Nel settembre 1918 Zinovev spiegò il destino di questi “nemici del popolo”: «Dobbiamo guadagnare alla nostra causa 90 milioni dei 100 milioni di abitanti della Russia sovietica. In quanto agli altri, non abbiamo nulla da dir loro: devono essere annientati».
    Sostituendo la parola kulak (il contadino possidente) con “ebreo”, la prosa di Lenin potrebbe benissimo essere quella di Hitler: «I kulaki – scrive Lenin – sono gli sfruttatori più feroci, dissanguatori arricchiti sulla miseria del popolo […] Questi ragni velenosi […], questi sanguisughe hanno succhiato il sangue dei lavoratori. […] A morte!».
    I linguaggi di Lenin e Hitler scorrono paralleli: il mondo è infestato dai nemici (ebrei o kulaki) definiti “insetti nocivi”, “pulci”, “cimici”, in breve non-uomini che vanno, di conseguenza, eliminati.
    Anche Gramsci, in Italia, utilizzò una terminologia per molti aspetti simile. In L’Ordine Nuovo, il fondatore de “L’Unità” scrive: «la piccola e media borghesia [è] la barriera di una umanità corrotta, dissoluta, putrescente […], umanità abietta […] espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco significa […] purificare l’ambiente sociale».
    La disumanizzazione del nemico quindi – ebreo, kulako o nemico del popolo che sia – è il primo passo per assuefare la mente umana alla pratica dell’assassinio di massa. Solo dopo aver convinto i propri adepti di combattere una guerra per l’avvento di una società nuova, solo dopo averli convinti dell’esistenza di un gruppo sociale di individui ostili a questo avvento è possibile eliminare il nemico senza problemi di coscienza. Anzi, nella più ferma convinzione di perseguire il “bene”.
    Nella lucida analisi di Luciano Pellicani (costellata di note bibliografiche, di commenti e di virgolettati illuminanti) una sola enunciazione non sembra completamente convincente: quella, cioè, che nazismo e comunismo siano accomunati nell’antitesi ai valori illuministi. Più che di negazione dell’illuminismo, a nostro parere i due totalitarismi ne sono il parto acritico, vale a dire una sorta di “cortocircuito”.
    Seppure nemici dell’individualismo e dei diritti dell’uomo – valori propagati dalla “rivoluzione” filosofica dell’illuminismo, ma di essa non esclusivi (già il cristianesimo aveva contribuito a fecondarli in Occidente) – nazismo e comunismo hanno prelevato dalla stessa fonte illuminista l’esaltazione dell’Utopia, la feroce negazione della trascendenza, l’essersi trasformati in vere e proprie “chiese” ideologiche, svuotando il cielo di Dio e cercando di portarlo in terra sotto forma di Partito, inseguendo un Paradiso terreno che, inevitabilmente, nel tentativo di modificare la natura umana si è rivelato un Inferno.
    «Mostri della Ragione», li ha definiti un giornalista di formazione cattolica come Rino Camilleri, figli impazziti ma assolutamente consequenziali del giacobinismo e del Terrore di Robespierre.

  2. Narrare la storia del 1945…oggi,puo’ senbrare anagronistico ma non e’ cosi purtroppo “un epoca anche quella del 1915 che ha visto molti uomini non tornare piu’ alle famiglie… Il dolore di chi ha patito quelle ferite che evidentemente non sono guarite ma che alimentano ancora oggi odi verso chi la pensa diversamente dal tipo di colore che la nostra idea ci propone…Ogni essere ha in se’ il seme della sua terra,della sua cultura e del suo credo…;sarebbe invece…auspicabile comprendere ognuno!

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