Per giorni abbiamo cercato la foto iconica dell’epoca del Coronavirus. Papa Francesco che percorre a piedi Piazza San Pietro deserta? Sergio Mattarella che omaggia in solitudine i caduti di tutte le guerre? Poi Silvia Romano atterra a Ciampino, si abbassa la mascherina e sorride. Per lei il lockdown è durato 18 mesi, un tempo pieno di ansie e preoccupazioni per la sua famiglia e per tutti i suoi amici. Non per tutto il suo Paese, a onor del vero.

La cooperante milanese di Africa Milele Onlus è stata rapita in Kenya martedì 20 novembre 2018 nel villaggio di Chacama, a circa ottanta chilometri dalla capitale Nairobi, ed è stata liberata in Somalia ieri, dopo un lungo lavoro dell’intelligence dei servizi segreti. All’indomani del suo sequestro la politica si divise tra chi chiedeva che la Farnesina si mobilitasse per riportare la giovane volontaria in Italia e chi asseriva “se l’è andato a cercare”. Come se aiutare il prossimo, gli ultimi e dimenticati da tutti, fosse una colpa in una società egoistica ed improntata alla competizione più che alla cooperazione. E’ un po’ come se il macellaio che si taglia il dito mentre svolge il suo lavoro venga ritenuto responsabile di essersela andata a cercare. E’ un po’ come se il militare caduto nell’esercizio del suo dovere, il marinaio che con la nave affonda, il medico che prende il Coronavirus in corsia, siano tacciati di imprudenza. Ma per queste categorie un pensiero così superficiale non si verrebbe mai ad infiltrare in una certa opinione pubblica.

Per fortuna Silvia resiste, sopravvive e torna a sorridere. Basterebbe questo, dopo 18 mesi, per poter vivere un momento di unità a fronte di una bella notizia, dopo mesi di preoccupazioni per tante altre cose. E invece siamo stati in grado di dividerci anche su questo bel lieto fine. Quanto ha pagato lo Stato per liberare Silvia? Perché indossa abiti della tradizione somala? Si è dovuta convertire all’Islam per imposizione? Si è sposata con un suo carceriere? Queste sono state le domande – ma più curiosità da gossip – fuoriuscite dalle solite bocche sentenziose che non mancano di affollare l’agoné politico italiano.

L’esempio lo ha dato l’ambasciatore italiano in Somalia, non entrando minimamente in queste questioni, dopo aver incontrato Silvia. Perché alla gioia non si può mettere il vestito che si preferisce. La gioia è improvvisa e indossa gli abiti di fortuna o, nel caso di Silvia, quelli imposti da una società tutt’altro che plurale. Inoltre la felicità per una vita salvata non può essere commisurata ad alcun prezzo, ad alcuna professione religiosa e neanche a qualsiasi altro aspetto della tragica vicenda della giovane, ammesso che le relative indiscrezioni poi trovino conferme. Perché adesso si cercherà di creare nuovi mostri, di aprire nuove crociate verso un mondo di sequestratori che invocano Allah. Nel frattempo, mentre impazzano queste polemiche, tre dei carcerieri di Silvia, secondo fonti dell’intelligence, sarebbero stati arrestati, anche se le relative udienze sarebbero state interrotte a causa della pandemia da Covid-19. Un altro uomo, quello più pericoloso, sarebbe ancora ricercato.

Dal canto suo, il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, mai così sul proscenio da quando si è insediato alla Farnesina, afferma che sarà fatta luce su ogni aspetto della vicenda e che si lavorerà per riportare a casa altri prigionieri italiani. Dopo una ben più umana stretta di mano del Premier Conte, Di Maio – in osservanza al protocollo antiCovid – tende un gomito a Silvia, che capisce e ricambia con lo stesso saluto. Ma poi davanti ai genitori e alla sorella qualsiasi regola di distanziamento non regge. Dopo due mesi l’abbraccio iconico – quello che rompe ogni restrizione – è servito in favor di camera. Silvia è tornata a casa e in quell’abbraccio c’è tutto un Paese che si libera, che libera e tornerà ad operare per favorire la libertà degli altri.

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