Scrivere trasforma la vita, la plasma, impreziosendo i legami indissolubili. Teresa La Scala, talentuosa scrittrice, possiede la capacità di trasmettere il battito più profondo di ogni istante, di ricamare con cura i personaggi con uno stile avvolgente, empatico. Un tocco leggero dell’anima, unico e dinamico. Nel suo ultimo romanzo “Ca” racconta con vibrante emozione il suo viaggio interiore in compagnia dell’amato padre. Un viaggio che non conosce soste, annulla le distanze tra la vita e la morte, una presenza amorevole che riaffiora tra le onde del mare, come l’unico tesoro da custodire tra le pieghe del cuore.
Il tuo nuovo romanzo “Cà” riaffiora dai ricordi del tuo caro papà, ripercorrendo un viaggio attraverso le tue origini, i luoghi della tua infanzia, il profumo del mare che insegue una segreta nostalgia. Cosa e chi ti ha ispirato questi versi densi di vita?
È nato tutto da questa poesia, letta sulla pagina Facebook del professor Alberto Bertoni, che ebbi la fortuna di conoscere quando frequentavo l’università, a Bologna. Avevo seguito il suo corso di Letteratura italiana contemporanea, era stato il mio relatore per la tesi di laurea, sui social network avevo continuato a seguirne le imprese letterarie, ma fu quella poesia a rendermelo così vicino, da farmi trovare l’ardire di tornare a scrivergli dopo tanti anni. Gli raccontai di me, e di come avessi perso mio padre in circostanze analoghe a quelle descritte dai suoi versi, il 23 dicembre del 2010. Anche le date erano così vicine. Gli scrissi che la sua poesia aveva rotto gli argini che fino a quel momento avevano trattenuto l’amore per mio padre dentro una rispettosa reticenza, e che adesso volevo farlo sgorgare liberamente, lungo l’unica strada per la verità. Volevo riportare mio padre nelle strade del suo paese, tra le persone che gli avevano voluto bene, per sentire ancora le storie della sua infanzia.
Volevo. Sentivo che questa era la mia missione. Ma avevo una tremenda paura di non farcela…
Come un’eroina delle fiabe, avevo bisogno di un aiutante che mi sostenesse nei momenti di difficoltà, che mi pungolasse ad andare avanti, incoraggiante e paziente.
Così la domanda: Professore, vuole essere il mio aiutante magico?
E una risposta, Certo, già piena di incoraggiamento, e di tutta la pazienza che occorre per essere ordinario all’università, tenere lezioni, seminari, laboratori, scrivere poesie, pubblicare sillogi e saggi critici, presiedere giurie, presenziare a convegni e conferenze sulla letteratura, e dare retta a me, che tra l’altro vivo in Svizzera…
Eppure Modena-Bellinzona diventa un attimo per studiarci allo schermo del computer, e decidere come procedere.
– Raccontalo a me. Raccontami di tuo padre, del posto in cui viveva, descrivimi le strade, gli amici, i giochi. Passeggiamo insieme in quella Manfredonia degli anni ’50.
– Va bene professore, è così che farò, le racconterò di Cà…
È nato tutto da quella poesia.
Il desiderio di far tornare a vivere mio padre nel solo modo che mi sia possibile, la scrittura.
Il coraggio di morire con lui e di esplorare, insieme, gli sfondi pressoché infiniti dei nostri corpi, tra filamenti e amebe, fino ai dirupi del sangue, senza perderci questa volta, ma seguendo decisi le rotte dei cromosomi, le tracce luminose dei filamenti di DNA, le nostre orme comuni.
L’amore e la sua urgenza di essere raccontato, e di raccontare quell’uomo che amava il mondo e che io amavo per il suo profumo di legno, di salsedine e di libertà.
Un libro che, attraversando le radure di smeraldo e poi le paludi di una memoria atavica e biologica, mi riconduca alle mie radici, indietro nel tempo, fino a raccogliere quelle ultime parole che non ho potuto ascoltare…
Ad un tratto un urlo straziato aveva lacerato l’aria, seguito dal pianto acuto e brillante di neonato. Armando era corso in casa, la Scrafagnata si era voltata a guardare verso il balcone: il gabbiano temerario aveva arraffato con il becco un bel pescione ed era volato via verso il mare. E Carlo era nato.
Era il 13 ottobre del 1952″. Il mare unisce e separa non solo due lembi di terra, ma il passato e il presente. Cosa ti resta del passato? Cosa trattieni per il tuo presente?
Per continuare con la tua metafora, il mio presente e il mio passato sono un unico mare, con le correnti che vanno e vengono, e a volte mi spingono verso il largo, altre mi riportano a riva con la risacca; è un unico mare che lambisce la mia vita con onde a ora lievi ora violente, con periodi di bonaccia morta e periodi di burrascose tempeste, ma niente va perso e tutto torna, come le conchiglie strappate durante una mareggiata e poi restituite dalla bassa marea”.
Da anni ti sei trasferita in Svizzera per motivi di lavoro, quale sguardo nutri verso la tua terra di origine, i tuoi occhi si vestono di nostalgia, di ricordi o di mancanze?
Manfredonia è la mia interiorità più profonda, è il posto del cuore. Ma non la anelo con struggente nostalgia o cocente rimpianto, no, niente di tutto questo. Perché Manfredonia è lì che mi aspetta, paziente come una madre, dolce di ricordi come una nonna, accogliente e protettiva come un abbraccio paterno, ammaliante e sfuggente come l’acqua: acqua di mare, livida di tempesta o rosea dei colori di un’alba, increspata da voli di gabbiani o liscia come l’olio all’orizzonte, che si rapprende in reti tra le mani di un pescatore, o in pesci allineati sulle bancarelle del mercato; acqua di fontana che disseta o lancia zampilli di cristallo verso il cielo; acqua di cielo che riflette il mare, infuocato da un tramonto dicembrino, striato di cenere da una fuga di nuvole, in cui si diverte a nuotare la mia anima.
Maria Pia Telera