La banalità del male nel 2018. Hannah Arendt, una delle filosofe più influenti del ‘900, scriveva questo saggio (“La banalità del male”) in relazione al processo nei confronti del gerarca nazista Eichmann il quale successivamente sarà condannato a morte. Ciò che di più bello si può dedurre da questo testo è che il nazismo e il fascismo, secondo la stessa filosofa, sono stati possibili a causa di un progressivo cedimento ad un determinato vocabolario. Ovvero nel momento in cui una certa dialettica, basata sull’odio e sull’esclusione sociale, è riuscita ad entrare nelle istituzioni politiche ed è diventata anche linguaggio quotidiano delle classi medie; nel momento in cui si è arrivati a non porre più limiti alle parole e a far perdere il senso del tabù: discutere dell’indiscutibile. Basti pensare, ad esempio, alle teorie lombrosiane secondo le quali criminali si nasceva e non si diventava; secondo le quali le caratteristiche di un criminale erano da ricercare nelle deformazioni anatomiche di una faccia e di un corpo. Teorie che faranno breccia anche nelle politiche nazionalsocialiste che adotteranno per trovare un motivo valido per poter perseguitare non solo gli Ebrei, ma anche uomini e donne di etnie totalmente diverse e che non rientrassero nella nota “razza ariana”. Al giorno d’oggi sembra di essere tornati esattamente a quei periodi storici. E’ importante fare alcuni esempi che ci riguardano da vicino per poter comprendere meglio.



Le Iene fanno un servizio in cui tentano di spronare il sindaco di Foggia a far passare lo scuolabus anche nei campi Rom, in quanto anche i bambini rom hanno il sacrosanto diritto all’istruzione, e le reazioni di fronte a questo servizio sono state totalmente imbarazzanti: “Mo dobbiamo pagare le tasse pure per questi” – “Cacciassero i soldi anche loro e vedono come passa lo scuolabus” – “E i bambini italiani chi li pensa?” Frasi abbastanza confusionarie, che ormai sono diventate note nella dialettica odierna, che non riescono minimamente a capire nozioni abbastanza basilari ovvero che chi è povero, non può permettersi di usufruire di determinati servizi; e che la povertà non conosce confini o nazioni, in un Paese normale la si combatte a prescindere dalla sua matrice.



Stessa cosa vale per un altro servizio girato dal noto programma di Mediaset sulla professoressa Fiorenza Pontini, licenziata e condannata ad un anno di carcere, per i seguenti post pubblicati su Facebook: “Bisogna ucciderli tutti”, “Questa invasione è la peste del terzo millennio, mi dispiace sentire che più di qualche profugo si salva”. E ancora: “Un altro salvataggio, ma non potevate lasciarli morire”. Frasi che dovrebbero farci rabbrividire ma che invece hanno destato la simpatia di molti commentatori i quali si sono espressi con frasi: “Prima gli Italiani” “Bisogna difendere professoresse come queste che amano la propria patria”.
Tutto questo sta a dimostrare di come siamo realmente entrati in una fase di mutazione antropologica; di assopimento della sensibilità e delle coscienze; di obsolescenza totale. Viviamo di apatia e di desentimentalismo, non riusciamo più a commuoverci di fronte a tragedie o situazioni di ingiustizia sociale ma, anzi, queste provocano uno sprigionare del nostro lato peggiore che manifestiamo attraverso la violenza delle parole. Hannah Arendt nel suo saggio arrivò a meravigliarsi di come quel gerarca nazista raccontasse quegli orrori con una semplicità unica; senza provare alcun tipo di rimorso o senza realmente provare qualcosa. Come se non avesse più la cognizione del male. Ecco molto probabilmente la stessa domanda dovremmo riproporcela noi: siamo coscienti di cosa sia il male? Siamo coscienti di quanto male facciano, e producano, le nostre parole? Ai posteri (ma mica tanto) l’ardua sentenza.

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