Un terrorista è stato catturato e quando la giustizia prevale è sempre un buon pretesto per festeggiare. Ma l’affannosa corsa ad accreditarsi il risultato della cattura di Cesare Battisti è stato uno dei momenti più bassi della storia della nostra Repubblica. Quanto avvenuto settimana scorsa all’aeroporto di Ciampino ha diversi profili di vergogna, molti dei quali dettati dalla “campagna elettorale permanente” e altri dalla scarsa conoscenza della storia dell’eversione rossa e nera e degli anni di piombo. Testimoni consapevoli di questo scempio sono stati il Ministro dell’Interno, Matteo Salvini e il Ministro – arrancante – della Giustizia, Alfonso Bonafede, con tutta la claque di giornalisti e forze dell’ordine, quest’ultime forse le uniche ad essere legittimate nella loro presenza così numericamente consistente.



Sul finire degli anni 70 e all’inizio degli ’80 la Dc e il Partito Comunista Italiano si interrogavano sull’atteggiamento da assumere nei confronti dei brigatisti che sequestravano personaggi illustri della politica, delle istituzioni e dell’imprenditoria. Prevalse, con molto sforzo dialettico tra le parti, la linea del “non scendere a trattative con le BR”. Trattare con i terroristi sarebbe stato un po’ come legittimare l’interlocutore, riconoscere la forza di quest’ultimo e dunque metterlo sullo stesso piano dell’altra compagine coinvolta nel tiro alla fune. Basti pensare che, per Battisti, è stata preparata un’accoglienza in bello stile, una passerella mediatica con tanto di dirette sui social prima e dopo, per capire che quell’aplomb della politica tradizionale sia scomparso e finito nel dimenticatoio, insieme al rispetto delle istituzioni e della legittimazione dei ruoli.

Poi ci sono gli elementi derivanti dalle parole. Prima dell’arrivo di Battisti sul suolo italiano il vicepremier Salvini, in una delle sue solite dirette sui social, ha esclamato festante il suo augurio che il terrorista dei PAC “marcisse in galera”. Un’affermazione che, per quanto impulsiva e destinata alla pancia, è comunque incostituzionale alla luce dell’articolo 27 della Costituzione che intende la pena come “rieducativa”. Dopo che il terrorista si è recato all’interno dei locali dell’aeroporto per il riconoscimento, il segretario della Lega ha rincarato la dose a microfoni riuniti e ha affermato che così l’Italia si afferma come potenza che conta sul piano dei rapporti internazionali.

Avrei voluto applicare questo concetto alla storia del giovane ricercatore Giulio Regeni ma non ci sono riuscito. E non ancora ci riesco quando penso che questo nuovo paese preponderante a livello internazionale non sia ancora riuscito ad ottenere giustizia dall’Egitto, il paese dove Regeni è stato ferocemente assassinato sotto la regia dei servizi segreti. Se si riuscisse ad avere uno straccio di prova, se la famiglia, a distanza di tre anni precisi, riuscisse ad avere pace allora potrei dire che l’Italia stia tornando ad essere un paese sovrano e non solo sovranista. Questo perché è troppo facile intestarsi la cattura di un topo di fogna ormai allo strenuo delle sue forze, mentre è più difficile riempire quelle voci della pagina di Wikipedia che all’omicidio di Giulio Regeni hanno ancora la voce “Sconosciute” di fianco alla casella delle motivazioni.



Ci sarebbero tanti altri motivi da far storcere il naso in tutta questa vicenda, in questo clima che a distanza di pochi giorni ha visto morire in mare 117 persone, nel disinteresse del grande paese sovrano col tricolore. In questo discorso si può estendere l’indignazione a quella sinistra che, durante i giorni di Battisti, è rimasta in silenzio nell’imbarazzo di chi lo aveva difeso e di chi oggi lascia terreno fertile alle scorribande mediatiche di Salvini & co. Si potrebbero aggiungere anche i commenti sul dress code del Ministro Salvini e sul video patetico di Bonafede con il filmino della cattura come se fosse la peggiore delle serie tv del momento. Ma in un mondo in cui questo genera approvazione e aumento delle percentuali nei sondaggi tutto va bene, tutto è legittimo. Alla fine sarebbe opportuno soltanto fermarsi a riflettere nella propria intimità, nel guardaroba della coscienza e per una volta, tra le tante divise disponibili, indossare quella della vergogna.

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