Sono 120 i medici e 30 gli infermieri deceduti in Italia durante questa emergenza Coronavirus. E mentre l’intero Paese si interroga lasciandosi trasportare dalla retorica degli “angeli in corsia”, queste categorie sono ancora sul primo fronte della lotta al virus, spesso senza protezioni e senza tutele. In questo contesto abbiamo ascoltato l’esperienza di Renata Chiusolo, 29 anni, originaria di Orta Nova (in provincia di Foggia) e infermiera del Centro universitario di ricerca e sperimentazione di Padova in Veneto. La sua storia ha una duplice valenza: la prima dovuta al fatto che, sin dall’inizio dell’emergenza, Renata ha prestato il suo operato presso il Reparto Covid di fisiopatologia respiratoria semintensiva dell’ospedale di Padova; la seconda perché purtroppo lo scorso 25 marzo ha scoperto di aver contratto il virus nell’esercizio del suo dovere.

Come lei, tante colleghe e colleghi dopo l’inizio di questa pandemia, hanno cambiato totalmente il loro modo di vivere e di lavorare, mettendosi al servizio di una battaglia più grande. Renata racconta di notti passate a smontare e rimontare interi reparti, per prepararsi al meglio ad un’ondata che anche in Veneto è stata piuttosto intensa e che è arrivata prima che in altre regioni d’Italia. “Mi sono occupata di pazienti non intubati con ossigenoterapia ad alti flussi, in un reparto che praticamente precede la rianimazione” – racconta l’infermiera a Il Megafono – “parlo di gente che ha circa 70 litri di ossigeno, nella normalità una persona che si ricovera per problemi di respirazione, nella peggiore delle ipotesi, può avere massimo 15 litri”.

Per circa un mese ha vissuto la fase della crescita esponenziale. In questo contesto non sono mai mancati dispositivi di sicurezza, ma nonostante questo si sapeva ben poco della malattia e della sua grande potenzialità di contagio. L’azienda ospedaliera Veneta è stata una delle più abili a fronteggiare l’emergenza, ma anche qui l’imponderabile ha avuto uno spazio assai determinante. Infatti, lo scorso 25 marzo, dopo aver denunciato dei primi sintomi, l’infermiera ortese ha effettuato il tampone e ha scoperto di essere positiva al COVID. “Sono stata la seconda nel nostro reparto ad essere infettata” – spiega nell’intervista. “Nonostante avessimo tutte le protezioni del caso, abbiamo preso il virus. Abbiamo delle bardature molto pesanti, che spesso sono scomode e ci portano a toccarci il viso. Sono delle distrazioni che possono costare caro”.

Da quel momento è iniziata una lunga fase di severo isolamento domiciliare per Renata che, fortunatamente, non ha avuto bisogno di essere ospedalizzata. La degente spiega di essere stata assistita per via telefonica ma di non aver potuto contare sulla presenza fisica del medico di famiglia. “Mettono le mani avanti e hanno paura. E’ comprensibile, ma a distanza come fanno a sapere le condizioni di un paziente? Io fortunatamente sono giovane e so gestirmi da sola, ma per un anziano è difficile. Non voglio dire che tutti i medici di famiglia si siano comportati così, ma io in un certo senso mi sono sentita abbandonata”.

Nonostante questo, la Veneta d’adozione ha elogiato il modo con cui la Regione abbia fronteggiato l’emergenza. Considerata la presenza di uno dei primi focolai nazionali (quello di Vo’ Euganeo), le misure stringenti hanno portato subito dei risultati, così come la distribuzione a tappeto di DPI e la predisposizione di esami sierologici a campione. Adesso l’azienda ospedaliera dove lavora, dopo essersi accertata del miglioramento delle condizioni della dipendente, è già pronta a richiamarla per serrare le fila in corsia durante questa fase 2. “Mi hanno dato la possibilità di scegliere” – racconta Chiusolo. “Se tornare nel reparto Covid-19 o se rientrare in un reparto più leggero, anche in considerazione di quello che ho passato per via della malattia. Ma onestamente non ho avuto dubbi”.

Dopo aver sentito nei propri polmoni l’aggressività di questo virus, senza la possibilità di uscire e prendere neanche una boccata d’aria dalla finestra, Renata ha deciso di tornare a dare il suo contributo nel reparto Covid-19. Sono state tante le storie che ha vissuto in prima linea per 20 giorni. Tante persone non ce l’hanno fatta, “alcune addirittura erano entrate con le loro gambe in ospedale” –  ricorda. Ma altre hanno riaperto gli occhi dopo la terapia intensiva e quella gioia è qualcosa che la giovane infermiera non dimenticherà. “Una sensazione di grande felicità ha pervaso tutti noi quando un paziente ha riaperto gli occhi e ha sentito per la prima volta la voce dei parenti al telefono. Sono queste le emozioni che mi portano a voler tornare in campo quanto prima, nella speranza che il nostro paese non si perda nella facile retorica, ma che anche quando sarà passato tutto riconosca a livello morale l’operato delle tante categorie che fanno sì che la vita vada avanti”.

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