L’autopsia preliminare disposta sul corpo di George Floyd, il 46enne afroamericano deceduto a Minneapolis qualche giorno fa, ha escluso l’asfissia e lo strangolamento tra le cause della morte. Secondo quanto si apprende da fonti di Polizia il decesso sarebbe stato causato da problematiche pregresse legate alla salute e anche da sostanze stupefacenti in circolo e non da quel ginocchio del poliziotto sul collo. Vi ricorda qualcosa? A me questa storia riporta con la mente a quanto avvenne il 22 ottobre del 2009 a Roma. Di un ragazzo 31enne, deceduto in circostanze piuttosto simili, dissero che era un drogato ed epilettico; dopo più di 10 anni è stata accertata la responsabilità dei Carabinieri. Quel giovane era Stefano Cucchi.

La verità è che questi “eccessi” della Polizia federale negli stati USA non sono delle eccezioni. Capitano spesso e capitano soprattutto ai danni di persone di colore e questo, al di là di questioni di ordine pubblico, non può assolutamente farci escludere una pregiudiziale razziale tutt’altro che estirpata nel nuovo mondo. Nel frattempo Donald Trump minaccia l’uso della forza nei confronti dei manifestanti che da giorni chiedono giustizia per Floyd in tutte le principali metropoli. Le proteste represse con la forza rappresentano un certo imbarazzo per la Casa Bianca, soprattutto in ragione di quella che è la nuova guerra fredda con la Cina. Da stigmatizzare gli interventi repressivi della Polizia armata del popolo fino ad accorgersi che nelle medesime condizioni non si è poi tanto diversi dal partito unico cinese. Quanti Floyd continueranno a morire indifesi e disarmati negli Stati Uniti? Tanti, ma adesso il mondo può scoprirlo prima. Ed è per questo che il presidente Trump se la prende con Twitter: non perché censura il suo linguaggio aggressivo, ma anche perché consente e favorisce l’indignazione mondiale.

Nei paesi dove la democrazia scricchiola finiscono sul banco degli imputati i social media e le forze di polizia. Fateci caso. Allora, al netto di ciò, possiamo affermare che gli Stati Uniti non siano quel sogno di libertà tanto decantato negli ultimi decenni. Non siano più quel paese dove il primo approdo mostra la Statua della Libertà, un messaggio di accoglienza e tolleranza che cozza contro la propensione alla belligeranza, alla violenza di quartiere e alla massimizzazione del profitto. Mentre la pandemia inasprisce l’iniquità sociale, il paese che ha come primo articolo della Costituzione il diritto alla felicità si riscopre più infelice, per una sanità che è ancora questione di pochi, per una disoccupazione giovanile che galoppa e per uno Stato Federale che ti ammazza anche di mano propria. E’ questa la trama della prossima pellicola USA in uscita nei cinema di tutto il mondo. In questo caso, non ci sono attori di Hollywood, né scene di alta regia, ma una realtà che forse in alcuni aspetti è ancora più crudele.

Titolo del film drammatico del momento: “I Can’t breathe”. Sono le parole che George Floyd ha pronunciato pochi istanti prima di morire, schiacciato sotto il ginocchio di un agente di polizia, dopo che gli avevano contestato il possesso di una banconota falsa. Questa espressione è diventata lo slogan della protesta che sta incendiando Minneapolis e parte della California. Quante volte abbiamo sentito in questo periodo l’espressione “non riesco a respirare”, proprio durante la pandemia da Coronavirus? Tante, purtroppo, tantissime volte. E questa impossibilità di respirare ci ha fatto pensare a tutte quelle difficoltà a causa delle quali non riusciamo neanche a garantire le funzioni essenziali della nostra esistenza. Siamo andati sulla luna, abbiamo costruito gli aereoplani e i grattacieli ma abbiamo il respiro che, per un motivo o per un altro, si blocca ancora, strappandoci via la vita. Respirare vuol dire vivere e vivere vuol dire avere dei diritti. Un mondo che non favorisce il respiro degli esseri umani è un mondo iniquo dove la democrazia e la tolleranza sono forse ancora da scoprire.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO