La  società tende a cambiare, ad adeguarsi alla tecnologia, a diventare più smart ed innovativa dal pubblico al privato ma non è detto che lo stesso cambiamento avvenga nei pensieri, nei comportamenti, nelle ideologie, nella cultura delle pari opportunità.
Nel 2017 parliamo ancora, forse con più enfasi, di femminicidio. Non si tratta di un semplice omicidio perché l’etimologia della parola va più a fondo, si inserisce in un quadro ben più complesso di analisi e comprensione del fenomeno. Con omicidio si indica genericamente l’uccisione di una persona, che sia donna, uomo, adulto o bambino. La lingua italiana ha adottato, nei tempi, altri termini settoriali come infanticidio, uxoricidio, matricidio, parricidio, fratricidio ma la più giovane è femminicidio, inserita per indicare il delitto nei confronti di una donna, del suo genere, dell’essere individuo considerato, nella cultura di basso spessore, inferiore.

L’importanza dell’uso di femminicidio deve essere ricercata nel fenomeno ancora troppo diffuso, in cui il potere di un uomo che sia marito, compagno, fratello, amante o anche un estraneo si impone su una persona, ritenuta nella società gerarchica, soggetto sottomesso. Alcuni dizionari e libri di linguistica identificano la parola femminicidio in “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”.

Il sistema patriarcale e maschilista, nel lavoro, nei diritti, nei doveri e nei comportamenti, continua a regnare nel pensiero comune della nostra società, in cui uomo  e donna sono esseri diversi. Per quanto la donna possa ambire a ruoli di prestigio continua ad essere accreditata come unica grande forza lavoro del focolare domestico, dall’immagine perfetta di moglie e madre intenta a lucidare, stirare e cucinare, riducendone in minimi termini la sua capacità decisionale ed organizzatrice negli ambienti in cui è presente anche l’immagine di un uomo. Dallo stretto spazio familiare a quello lavorativo è ancora molto lunga la strada da fare. Ed è proprio da questa semplice base e struttura che si inserisce l’importanza del termine femminicidio. Una società che ancora stenta a riconoscere l’uguaglianza dei sessi, impreparata a rovesciare quei diktat tanto antichi e privi di razionalità, cocciuta al cambiamento e all’accettazione dell’emancipazione femminile, non potrà evitare il ripetersi di episodi di violenze fisiche e psicologiche.

In Italia, solo nel 1981, è stata abrogata la legge che contemplava una pena ridotta per chi uccide la moglie, la figlia o la sorella “per l’onor suo o della famiglia”. Giuridicamente tutto perfetto ma culturalmente siamo sicuri di esser riusciti ad abrogare questo pensiero? No, la risposta ci viene servita su un piatto di orrore, di tragedie, di inaccettabili motivazioni che hanno come unica causa il rifiuto di uno sguardo comune all’uguaglianza.  Chiaramente lo riporta anche il linguista Rosario Coluccia: “Il ‘femminicidio’ indica l’assassinio legato ad un atteggiamento culturale ributtante, di chi considera la moglie, la compagna, l’amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari; se la proprietà viene negata, se un altro maschio si avvicina all’oggetto che si ritiene proprio, scatta la violenza cieca.”

E quindi ben venga l’incessante ripetersi della parola femminicidio, per comprendere un fenomeno molto più ampio di una semplice definizione da dizionario che va a scoprire le carte di una sottocultura ancora troppo diffusa.

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