Carmine Capolongo, nasce a Orta Nova il 27 Gennaio 1899 figlio di Giovanni e di Tartaglia M. Saletta, svolge la professione di “barbiere”. Si sposa in Orta Nova il 2 Febbraio 1921 nella Chiesa Matrice di S. Maria delle Grazie, con Gasbarro Grazia, nata in Orta Nova il 26 Gennaio 1899, casalinga figlia di Michele e di Fiorentino M. Giovanna. Il 2 Luglio del 1927 si trasferisce a Milano in Via Bengas, 3 per garantire un futuro migliore ai propri figli. Qui inizia a lavorare in proprio come parrucchiere.

L’8 settembre 1943 Mussolini fu liberato dalla prigione del Gran Sasso. I tedeschi presero il comando ed invasero tutta la Penisola. Ufficiali e soldati italiani non volevano collaborare con i tedeschi: solo pochi fascisti e repubblichini formarono la Repubblica di Salò. Ebbero inizio le prime formazioni partigiane. Carmine Capolongo, non era militare, nel Settembre 1943 aderisce al Comitato di Liberazione Volontari nella formazione “Montecatini” , si era unito con grande entusiasmo anche se conscio del pericolo cui andava incontro. Aveva preso il nome di battaglia di “Alexander”, come facevano un po’ tutti, precauzione risultata poi inutile.

Il 18 dicembre 1943 vi fu l’attentato ad Aldo Resega e la rappresaglia con l’eccidio nazifascista. Tre gappisti, istruiti la sera prima sull’azione prevista ma senza essere informati sull’identità del dirigente fascista da colpire, uccisero in via Bronzetti il 18 dicembre 1943 il commissario federale milanese del Partito Fascista Repubblicano di Milano Aldo Resega e riuscirono a fuggire in bicicletta. Nonostante Resega avesse scritto nel suo testamento spirituale che non voleva rappresaglie nel caso fosse ucciso, su ordine del ministro dell’interno della RSI Guido Buffarini Guidi e del capo della Provincia Oscar Uccelli il generale Solinas costituì un Tribunale militare straordinario che condannò a morte con un giudizio sommario otto partigiani arrestati nel novembre del 1943 detenuti a San Vittore: Carmine Campolongo, Fedele Cerini, Giovanni Cervi, Luciano Gaban, Alberto Maddalena, Carlo Mendel, Giuseppe Ottolenghi (detenuto sotto il falso nome di Antonio Maugeri), Amedeo Rossin. Anche Gasbarro Grazia, moglie del Capolongo, veniva arrestata e sotto la minaccia dei fucili, fui portata alla questura di via Copernico. Per dormire c’era un tavolaccio di legno dove le cimici vi passeggiavano. Poi condotta in prigione a San Vittore, insieme alle mogli degli altri partigiani. All’alba di domenica 19 dicembre 1943 dieci detenuti politici furono prelevati da San Vittore e portati al Palazzo di Giustizia.

Dalle 9:30 alle 14:30 furono tenuti ammanettati nella Sala degli Avvocati, in attesa del Tribunale militare straordinari che li doveva giudicare. Alle 14:30 arrivò il questore Santamaria Nicolini con altri due capitani fascisti e dopo nemmeno due ore di un pseudo processo senza difesa, senza pubblico, senza alcuna formalità legale furono condannati a morte in otto. La predeterminazione della condanna a morte è dimostrata dal fatto che l’Arena fu bloccata al pubblico da reparti militari alcune ore prima della sentenza del tribunale militare, come scritto nella sentenza citata della Corte d’Assise. Il plotone di esecuzione era costituito dalla Legione Autonoma Mobile Ettore Muti e dalla “Trieste”. Invitati a collocarsi su sedie i condannati rifiutarono e vollero morire in piedi. Dietro di loro erano le casse da morto. Alle 17:30 sopraggiunse Santamaria Nicolini, presidente del Tribunale militare straordinari che lesse la condanna a morte. Le otto vittime innocenti si abbracciano e si baciano nel loro reciproco ultimo saluto e sono costrette a sedersi e a farsi legare su apposite sedie alla presenza del questore, del prefetto Uccelli in rappresentanza del Ministro Buffarini Guidi, ispiratore della strage. Quando viene ordinata la terribile parola “fuoco” tutti gli otto martiri d’accordo si alzano in piedi come segno di protesta e per morire da forti e gridano: “Viva L’Italia”.

Chi non morì subito fu ucciso con un colpo di grazia di pistola. Nel 1946 i giudici della Corte di Assise speciale di Milano condannarono a morte i membri del Tribunale militare che ricorsero poi in Cassazione ed ottennero una revisione del processo, dato che nel frattempo era stata decretata un’amnistia. In ricordo dell’ Eccidio Nazifascista l’amministrazione comunale e l’ANPI di Milano posero un cippo e una lapide all’Arena di Milano.

Approfondimento storico a cura di Francesco Di Corato



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