“Noi serial killer siamo i vostri figli, i vostri mariti, siamo ovunque”. Queste, in mezzo ad altre molte cose, disse il Ted alla polizia, ovvero che gli assassini sono ovunque e non portano di certo una targhetta identificativa. Era l’alba del 1974 quando Ted Bundy iniziò ad uccidere. Erano gli anni ’70 e il termine “serial killer – assassino seriale” ancora non esisteva, malgrado la storia fosse stata già costellata da individui simili. Era difficile ammettere che potessero esserci individui che uccidessero per pura soddisfazione personale, privi di un reale movente personale contro le proprie vittime. Ma questo mondo è capace di generare cose inimmaginabili.
Certo è che il male è in noi, in mezzo a noi e Ted Bundy lo sapeva bene. Altra certezza è che da sempre il crimine, come altri fatti della vita, ispiri l’arte nella sua intera complessità. Per questo motivo, dopo un’attenta analisi di 4 minuti e 37 secondi che mi sono concessa mentre sedevo ancora sulla poltrona del cinema, posso affermare senza dubbio alcuno che l’ultima trasposizione cinematografica della vita di Bundy è stata, come direbbe Fantozzi una cagata pazzesca.
Dopo vari film e sceneggiati anni ’80 e ’90, una recentissima docu-serie Netflix, che nei primi 10 minuti tira una suspence vertiginosa peraltro diretta dallo stess regista, è ora in sala Ted Bundy – Fascino del male. Malgrado l’impegno profuso, un cast stellare che vanta nomi come John Malkovich, Jim Parsons, Lily Collins e James Hetfield dei Metallica, il film risulta pressoché mediocre nel suo insieme.
La storia spazia su differenti lassi temporali (tecnica molto in voga adesso) tuttavia senza scattare l’adrenalina necessaria. Una serie di brani iconografici costella la colonna sonora inseriti in modo del tutto banale. Ma è l’interprete di Bundy a lasciare perplessa la sala: uno Zac Efron sorridente come ai tempi di High School Musical si destreggia sullo schermo, sforzandosi in ogni modo di essere convincente il più possibile senza riuscirci. Colpa a mio avviso della trama troppo buonista, il cui intento era di mostrare come un serial killer vivesse la sua doppia vita presenta un buco immenso: ci viene mostrato infatti solo il lato tenero di Bundy, troppo per poter collimare con il criminale che fu poi in realtà. Non che la trama presenti inesattezze, ma la scelta dei momenti ed i tagli fatti ne hanno minato irrimediabilmente la credibilità.
Quello che più è mancato è stato il movente, o comunque un lontano parente di esso. Il focus sul processo ha ridato un po’ di sale al tutto, ma non è stato per nulla sufficiente.
Insomma, nella sua complessità l’opera è risultata insoddisfacente e anche a tratti noiosa, difficile da credere se si va poi a leggere la biografia del protagonista.
Prova fallita per Troy, ehm, Zac che avrebbe dovuto sporcarsi a fondo le mani per togliersi di dosso i lustrini Disney e vestire i panni intrisi di sangue di Ted Bundy, un killer dal profilo psicologico complesso e controverso che sullo schermo è stato del tutto assente. Voto 4,5. Consiglio la docu-serie Netflix che esaustivamente soddisferà tutte le vostre curiosità su Lady Killer.